giovedì 22 aprile 2021

 

VERIFICA FINE CAPITOLO P. 599

1) a) Nella prospettiva positivistica, la ricerca scientifica comincia dall'osservazione dei dati empirici - VERO

b) Secondo Popper, una teoria è solida se è verificata sperimentalmente - FALSO

c) La sociologia fa frequentemente uso di esperimenti - FALSO

2) E’ un carattere qualitativo ordinabile: C il titolo di studio

3) Procedimento logico mediante il quale ricaviamo conclusioni di carattere universale partendo conoscenze relative a casi particolari, attestati dall'esperienza - METODO INDUTTIVO

4) In quali molteplici sensi può porsi la questione della validità di una ricerca?

Per lo studioso che conduce una ricerca è importante avere la certezza che essa risponda a requisiti di "validità". Questo concetto si specifica in due ulteriori questioni: la validità degli strumenti impiegati e quella dei risultati a cui si approda. Uno strumento è valido se misura effettivamente, e in modo preciso, ciò che intende rilevare. Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose. Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”. Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente. Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.

5) In che senso l'epistemologia contemporanea ha messo in discussione la concezione positivistica della ricerca scientifica?

In primo luogo, ha sottolineato la debolezza del principio di induzione: dall'esperienza di casi particolari, per quanto numerosi, non è possibile ricavare una conoscenza certa di carattere universale, giacché molte conferme non sono sufficienti a garantire la bontà di un'affermazione generale, mentre una sola smentita è in grado di invalidarla. ln secondo luogo, l'epistemologia novecentesca ha rifiutato l'idea che la ricerca possa iniziare dalla pura e semplice osservazione dei dati: quest'ultima, in realtà, presuppone sempre un qualche elemento teorico, che orienti l'interesse del ricercatore e guidi la sua stessa osservazione, selezionando e organizzando i dati percettivi.

venerdì 16 aprile 2021

 

DOMANDE P. 592

1)      Che differenza c’è tra teoria e ipotesi?

La teoria è il quadro generale di concetti e principi, tra loro collegati, elaborati per spiegare un certo fenomeno o una certa classe di fenomeni. Un'ipotesi è una supposizione relativa a un fenomeno, o al rapporto che lega due o più fenomeni, di cui si può accertare la correttezza tramite verifica empirica.

2)      Perché l’esperimento si distingue da tutte le altre tecniche di acquisizione dei dati?

Si tratta di una questione di fondo, in quanto l'esperimento differisce profondamente dagli altri metodi di ricerca perché chi ne fa uso non si limita a registrare delle informazioni acquisite con tecniche particolari, ma interviene attivamente sulla realtà da indagare, modificando alcune condizioni e rilevando poi gli effetti di tale cambiamento. Questa procedura, isolando determinati fattori all'interno della situazione di ricerca, riduce al minimo il rischio di distorsione dei risultati dovuto all'intervento di variabili estranee; in più consente, a differenza della semplice raccolta empirica dei dati, di cogliere nessi causali tra gli eventi.

3)       Quali sono le principali procedure non sperimentali?

Se il ricercatore opta per una procedura non sperimentale, deve decidere quale tecnica di rilevazione dei dati utilizzare, scegliendo la più consona al suo lavoro: Un'osservazione diretta dei soggetti di studio, un'inchiesta su una popolazione condotta tramite interviste o questionario, il ricorso a tecniche di rilevazione indirette come i questionari autodescrittivi o i test.

4)      Che cosa sono i caratteri e come si possono classificare?

I caratteri sono una proprietà di un evento suscettibili di rilevazione e capaci di assumere diverse modalità in soggetti e situazioni differenti. Distinguiamo caratteri quantitativi, le cui modalità corrispondono a diverse quantità della proprietà in questione e si distinguono in caratteri discreti e continui; i caratteri qualitativi, le modalità sono semplici categorie, che non designano una specifica quantità della proprietà in questione e si distinguono in caratteri ordinabili e non ordinabili.

5)      Perché è importante la definizione degli indicatori?

Spesso però nelle scienze umane lo studioso ha che fare con realtà immateriali, intraducibili in grandezze fisiche: sono tratti psichici e comportamentali, proprietà di individui e di gruppi. In questo caso è necessario che il carattere che si intende rilevare sia definito in modo concreto e puntuale, attraverso la messa a punto di quelli che vengono chiamati gli indicatori, cioè i "dati spia" empiricamente riscontrabili che ci consentono di rilevarne le modalità.

6)      Che cos’è una distribuzione statistica e come può essere rappresentata?

Il complesso delle diverse modalità e delle rispettive frequenze con cui un determinato carattere si manifesta in una popolazione è detto distribuzione di frequenze o distribuzione statistica. Le distribuzioni statistiche possono essere rappresentate con tabelle oppure tramite grafici, cioè figure che ne rappresentano simbolicamente le caratteristiche.

7)      Che differenza c’è tra validità esterna e validità interna in una ricerca?

Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose.

Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”.

-          Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.

-          -Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.

 

I CARATTERI E GLI INDICATORI


I dati interessano al ricercatore per via di alcuni aspetti o proprietà che li riguardano: nel linguaggio statistico queste proprietà vengono chiamate caratteri o, con un linguaggio meno preciso ma più intuitivo, "variabili", proprio perché possono variare, cioè assumere stati o valori differenti in soggetti e situazioni diversi. Distinguiamo caratteri quantitativi (le cui modalità sono quantità, espresse da numeri) e caratteri qualitativi (le cui modalità sono semplici categorie, che non designano una specifica quantità della proprietà in questione). Sono del primo tipo, ad esempio, l'età di una persona, il numero dei componenti di un nucleo familiare, il tempo impiegato a svolgere un determinato compito, mentre sono del secondo tipo lo stato civile, la nazionalità, il titolo di studio ecc. I caratteri quantitativi sono discreti o discontinui se i numeri che ne esprimono le modalità appartengono all'insieme N dei numeri naturali (è il caso dei numeri dei componenti di una famiglia: possono essere 2, 3, 4, 10 ma mai, 3,5 0 3/8); sono invece continui se le loro modalità appartengono all'insieme R dei numeri reali (il tempo impiegato per svolgere un compito). Tra i caratteri qualitativi, sono ordinabili quelli le cui modalità possono essere disposte in un ordine gerarchico (il titolo di studio), sono non ordinabili invece quelli in cui tale ordine non esiste (è il caso della nazionalità o dello stato civile). La nazionalità o lo stato civile di una persona, la sua età, la sua professione, il numero di fratelli che ha o il tempo che impiega a compiere una certa azione sono realtà che chiunque, anche senza una specifica professionalità, può facilmente ricavare. Spesso però nelle scienze umane lo studioso ha che fare con realtà immateriali, intraducibili in grandezze fisiche: sono tratti psichici e comportamentali, proprietà di individui e di gruppi. In questo caso è necessario che il carattere che si intende rilevare sia definito in modo concreto e puntuale, attraverso la messa a punto di quelli che vengono chiamati gli indicatori, cioè i "dati spia" empiricamente riscontrabili che ci consentono di rilevarne le modalità. Durkheim, nel suo studio sul suicidio, scompone il carattere "integrazione sociale" nelle 3 dimensioni dell'integrazione politica, religiosa e domestica, specificando quindi gli indicatori empirici che definiscono ciascuna delle componenti.

 

GLI STRUMENTI STATISTICI

La statistica è la scienza che si serve di metodi matematici per l'analisi e l'elaborazione di dati relativi a fenomeni collettivi, al fine di trarne conclusioni fondate e rilevanti. Le scienze umane, così come la meteorologia, la medicina, l'economia, ne fanno sistematicamente uso. L'operazione di tradurre in numeri l'oggetto della propria ricerca può essere compiuta in più contesti e a diversi livelli. Questa operazione si chiama "misurazione di frequenza": ciò che possiamo misurare è la frequenza assoluta, quante volte effettivamente una certa modalità compare, e frequenza relativa, il rapporto tra la frequenza assoluta e il numero totale delle rilevazioni effettuate. Il complesso delle diverse modalità e delle rispettive frequenze con cui un determinato carattere si manifesta in una popolazione è detto distribuzione di frequenze o distribuzione statistica. Conoscere la frequenza assoluta o relativa di un fenomeno costituisce comunque una necessaria base di partenza per valutarne l'impatto sociale, avanzare spiegazioni o previsioni, suggerire possibili strategie di intervento. Le distribuzioni statistiche possono essere rappresentate con tabelle oppure tramite grafici, cioè figure che ne rappresentano simbolicamente le caratteristiche.

LA VALIDITA' DELLA RICERCA

Per lo studioso che conduce una ricerca è importante avere la certezza che essa risponda a requisiti di "validità". Questo concetto si specifica in due ulteriori questioni: la validità degli strumenti impiegati e quella dei risultati a cui si approda. Uno strumento è valido se misura effettivamente, e in modo preciso, ciò che intende rilevare.  In psicologia, ad esempio, da un test per la misurazione dell'intelligenza ci si aspetta che misuri effettivamente ciò che intende rilevare, il quoziente intellettivo dell'individuo, e non altre caratteristiche, come la creatività o l'attitudine a svolgere un determinato compito; da un questionario predisposto per un'inchiesta sulla pratica religiosa all'interno di una determinata popolazione, ci si attende che dia informazioni su quello specifico fattore che intendiamo indagare, e non su altri. Tuttavia, è pur vero che, soprattutto in sociologia, può capitare che uno strumento predisposto per rilevare un certo fattore possa dare informazioni supplementari e impreviste su altri aspetti del fenomeno. Nel 1972 gli studiosi statunitensi Morris Rosenberg e Roberta Simmons interpellarono un gruppo di studenti di Baltimora per conoscere la loro posizione nei confronti delle persone di colore. I dati emersi dalla loro inchiesta contenevano però molte informazioni supplementari di ordine sociodemografico. Su tale materiale lavorarono alcuni anni dopo altri due studiosi, Janet e Larry Hunt, studiando in particolare il rapporto tra l'assenza della figura paterna in famiglia e la socializzazione delle ragazze ai ruoli femminili. Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose. Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”.


-          Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.

-           Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.

 

I CONCETTI CHIAVE DELLA RICERCA


Una teoria può essere definita come un insieme di proposizioni organicamente connesse, dotate di un alto livello di astrazione, proposte per spiegare o dare ragione di determinati fatti empirici. Una teoria si articola in una o più ipotesi specifiche; un'ipotesi è una supposizione relativa a un determinato fenomeno o ambito di fenomeni, che si colloca a un livello di astrazione minore della teoria e che è formulata in modo da essere empiricamente controllabile. Se manca la possibilità di un riscontro empirico, l'ipotesi resta una semplice supposizione, per quanto interessante o intrigante; per questo la sua formulazione deve essere tale da indicare indirettamente le esperienze necessarie a controllarne la plausibilità.


I DATI EMPIRICI E LA LORO RILEVAZIONE

Nella ricerca i "dati" sono le informazioni che il ricercatore si procura tramite procedure di tipo empirico. Tali procedure si dividono essenzialmente in 2 tipi, sperimentali, cioè basate sull'uso di esperimenti, e non sperimentali. Si tratta di una questione di fondo, in quanto l'esperimento differisce profondamente dagli altri metodi di ricerca perché chi ne fa uso non si limita a registrare delle informazioni acquisite con tecniche particolari, ma interviene attivamente sulla realtà da indagare, modificando alcune condizioni e rilevando poi gli effetti di tale cambiamento. Questa procedura, isolando determinati fattori all'interno della situazione di ricerca, riduce al minimo il rischio di distorsione dei risultati dovuto all'intervento di variabili estranee; in più consente, a differenza della semplice raccolta empirica dei dati, di cogliere nessi causali tra gli eventi. Tuttavia, il disegno sperimentale non è sempre praticabile: la decisione di isolare determinate condizioni per analizzare in che modo il variare dell'una incida su quello dell'altra, infatti, presuppone che tali variabili siano state riconosciute come significative e importanti, e tale riconoscimento può scaturire spesso solo da ricerche precedenti, condotte con metodi non sperimentali. Inoltre, il metodo sperimentale non si presta allo stesso modo per tutti gli ambiti disciplinari: il suo impiego è frequente in psicologia, dove costituisce il metodo principe di ricerca, in psicologia sociale, mentre è difficile farne uso in antropologia e sociologia. Se il ricercatore opta per una procedura non sperimentale, deve decidere quale tecnica di rilevazione dei dati utilizzare, scegliendo la più consona al suo lavoro: Un'osservazione diretta dei soggetti di studio, un'inchiesta su una popolazione condotta tramite interviste o questionario, il ricorso a tecniche di rilevazione indirette come i questionari autodescrittivi o i test. L'osservazione è una tecnica di ricerca in qualche modo trasversale alle diverse scienze umane, anche per la sua estrema flessibilità e per la sua capacità di essere declinata in forme differenti. In antropologia è diffusa l'osservazione partecipante, in cui lo studioso si mescola ai soggetti osservati; in psicologia si opta spesso per osservazioni di laboratorio, condotte con protocolli rigidi e standardizzati. Altre procedure di ricerca, seppur utilizzabili in varie forme, si abbinano più agevolmente a specifici ambiti disciplinari. ln sociologia è frequente l'uso di questionari e interviste con cui si conducono inchieste, ossia si interpella una popolazione, cioè un insieme di persone che condividono una certa caratteristica. Se la popolazione è troppo ampia per condurre l'inchiesta in tempi ragionevoli, si fa uso di un campione, cioè di un gruppo di soggetti che ne sia rappresentativo, scelto con procedure di estrazione particolari. Il test è uno strumento tipicamente usato dagli psicologi, che sondano per suo tramite determinati tratti psichici. I questionari descrittivi, collaudati in psicologia sociale per lo studio degli atteggiamenti, sono oggi usati anche per la misurazione di altri tratti interiori. Non esiste una tecnica in assoluto "migliore" di altre, ma solo la più idonea a una certa situazione, purché ovviamente ne sia fatto un uso metodologicamente corretto.

 

DOMANDE P. 584

1) Quale idea della ricerca ha il senso comune?

Il senso comune tende spesso a farsi un'idea semplificata e imprecisa della ricerca scientifica. Sia che pensi al lavoro del ricercatore nel campo delle scienze umane sia che immagini scenari di ricerca in quello delle scienze naturali, l'opinione comune tende a credere che l'attività di ricerca consista semplicemente in una "raccolta" di informazioni che la realtà elargisce spontaneamente. Il buon ricercatore, in quest'ottica, è colui che ha la pazienza e la perspicacia per "cogliere" i dati che la realtà gli offre, per notare i particolari, per individuare gli elementi di interesse (somiglianze, differenze, regolarità) e infine per giungere a formulare affermazioni certe o plausibili.

2) Quali sono i presupposti del modello positivista della ricerca scientifica?

Nel XIX secolo il Positivismo, l'indirizzo di pensiero inaugurato da Auguste Comte, filosofo francese e padre della sociologia, caratterizzato dall'esaltazione dello spirito scientifico e intenzionato a estendere le procedure delle scienze esatte allo studio della realtà nel suo complesso, teorizzò un'idea del metodo scientifico molto semplice: lo scienziato sottopone a osservazione i fenomeni, individua tra essi relazioni costanti e infine formula una legge, cioè una relazione che lega tali fenomeni in modo necessario. A fondamento del modello positivista della ricerca stava la fiducia nel processo di induzione, il procedimento logico mediante il quale ricaviamo conclusioni di carattere universale partendo da conoscenze relative a casi particolari, attestati dall'esperienza e nella possibilità di accostarsi ai fenomeni senza disporre di idee o ipotesi preliminari che possano guidare la ricerca.

3) In che senso l’epistemologia ha “smontato” il principio di induzione?

In primo luogo, ha sottolineato la debolezza del principio di induzione: dall'esperienza di casi particolari, per quanto numerosi, non è possibile ricavare una conoscenza certa di carattere universale, giacché molte conferme non sono sufficienti a garantire la bontà di un'affermazione generale, mentre una sola smentita è in grado di invalidarla. ln secondo luogo, l'epistemologia novecentesca ha rifiutato l'idea che la ricerca possa iniziare dalla pura e semplice osservazione dei dati: quest'ultima, in realtà, presuppone sempre un qualche elemento teorico, che orienti l'interesse del ricercatore e guidi la sua stessa osservazione, selezionando e organizzando i dati percettivi.

4) Che cosa sostiene il falsificazionismo di Popper?

Sottolineare la presenza di presupposti teorici in ogni nostra esperienza del reale non significa tuttavia sminuire l'importanza del confronto con i dati empirici, di cui la ricerca si consustanzia: se, da una parte, la teoria guida l'osservazione dei fatti, dall'altra i fatti osservati producono effetti importanti sulla teoria stessa, costringendo spesso il ricercatore a modificarla per adeguarla alle nuove scoperte. E poiché, una sola smentita empirica è sufficiente per smontare un intero costrutto teorico, fare ricerca significa allora cercare nell'esperienza prove e situazioni che possano invalidare la teoria di partenza, al fine di saggiarne la solidità. Come un'automobile sopravvissuta al crash test, sarà una buona teoria quella che ha resistito a ogni tentativo di confutazione: è questa la posizione di Popper del "falsificazionismo".

 

 

LA RICERCA SECONDO L'EPISTEMOLOGIA NOVECENTESCA

L'epistemologia è la branca della filosofia che si interroga sulla natura e sui fondamenti del sapere scientifico. Ci si è chiesti, ad esempio, che cosa siano le teorie scientifiche, in che modo gli scienziati giungano a elaborarle ma anche ad abbandonarle per rimpiazzarle con concezioni nuove. Nel XX secolo la riflessione epistemologica ha avuto una notevole rilevanza all'interno del dibattito filosofico, e in buona parte essa è stata dominata proprio dalla discussione critica del modello scientifico positivista, di cui ha messo in luce i nodi critici. La filosofia della scienza del Novecento, all'interno della quale spiccano figure come quelle di Karl Popper, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, ha messo in discussione proprio i due assunti chiave su cui il Positivismo aveva costruito la sua nozione di ricerca scientifica.

1) Ha sottolineato la debolezza del principio di induzione: dall'esperienza di casi particolari, per quanto numerosi, non è possibile ricavare una conoscenza certa di carattere universale, giacché molte conferme non sono sufficienti a garantire la bontà di un'affermazione generale, mentre una sola smentita è in grado di invalidarla.

2) L’epistemologia novecentesca ha rifiutato l'idea che la ricerca possa iniziare dalla pura e semplice osservazione dei dati: quest'ultima, in realtà, presuppone sempre un qualche elemento teorico, che orienti l'interesse del ricercatore e guidi la sua stessa osservazione, selezionando e organizzando i dati percettivi.


Le aspettative, le conoscenze, le ipotesi creano cioè prospettive diverse di osservazione, all'interno delle quali si formano, in un certo senso, dati differenti. Secondo una nota metafora del filosofo statunitense Norwood Hanson, i due astronomi Tyler Brahe e Keplero, in piedi su una collina all'alba con lo sguardo rivolto verso Oriente, non vedono la stessa cosa: il primo, seguace della teoria geocentrica, "vede" il sole che si leva sull'orizzonte; il secondo, che segue invece la teoria eliocentrica, "vede" l'orizzonte scorrere sotto il sole immobile. Sottolineare la presenza di presupposti teorici in ogni nostra esperienza del reale non significa tuttavia sminuire l'importanza del confronto con i dati empirici, di cui la ricerca si consustanzia: se, da una parte, la teoria guida l'osservazione dei fatti, dall'altra i fatti osservati producono effetti importanti sulla teoria stessa, costringendo spesso il ricercatore a modificarla per adeguarla alle nuove scoperte. E poiché, come abbiamo visto, una sola smentita empirica è sufficiente per smontare un intero costrutto teorico, fare ricerca significa allora cercare nell'esperienza prove e situazioni che possano invalidare la teoria di partenza, al fine di saggiarne la solidità. Come

un'automobile sopravvissuta al crash test, sarà una buona teoria quella che ha resistito a ogni tentativo di confutazione: è questa la posizione di Popper del "falsificazionismo"

 

INTERROGARE LA REALTA' PER RICEVERE RISPOSTE

Immaginate di parlare con una persona che avete conosciuto da poco: il vostro intento è quello di sapere qualcosa in più su di lei e perciò le fate delle domande. Naturalmente, ciò che le chiederete sarà legato ai vostri interessi e alle vostre priorità. Nella ricerca la situazione è analoga: lo studioso pone domande alla realtà "costringendola" a piegarsi ai suoi interrogativi e ai suoi interessi, ma disposto comunque ad accettare le risposte che riceverà, e a mutare, in funzione di queste, la propria visione delle cose. Ma perché interroghiamo la realtà in cerca di risposte? Perché andiamo alla ricerca di dati che forse sovvertiranno i nostri presupposti e le nostre conoscenze? La risposta è che ogni ricerca, qualunque sia l'ambito in cui nasce, prende avvio da un "problema", cioè da una situazione di "mancanza", di privazione, che è vissuta come disagio e che chiede di essere risolta. Talvolta il problema è un fatto concreto, che si impone all'attenzione degli studiosi e dell'opinione pubblica per la sua urgenza e gravità. Nel campo delle scienze umane raramente la ricerca è mossa da emergenze così impellenti, ma scaturisce comunque da fattori di criticità che stimolano l'interesse dello studioso. Nell'ambito della psicologia sociale, ad esempio, lo psicologo statunitense Stanley Milgram condusse nel 1961 il suo esperimento sull'influenza dell'autorità, dimostrando che il principio di autorità può condurre i soggetti a compiere azioni in contrasto con i loro valori morali, quando era iniziato da pochi mesi il processo contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Milgram era interessato a capire quali meccanismi psicologici potessero avere spinto i soldati tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale, a eseguire gli ordini disumani che avevano ricevuto. Tra i sociologi, lo statunitense Howard Becker nel suo studio Outsiders cercò di spiegare come nasca la "carriera" di individui e gruppi devianti illustrando i meccanismi di "etichettamento" che trasformano un comportamento trasgressivo nei confronti delle norme sociali in una "qualità" attribuita al soggetto.

 

 

IN CHE COSA CONSISTE LA RICERCA?



OLTRE IL SENSO COMUNE

Il senso comune tende spesso a farsi un'idea semplificata e imprecisa della ricerca scientifica. Sia che pensi al lavoro del ricercatore nel campo delle scienze umane sia che immagini scenari di ricerca in quello delle scienze naturali, l'opinione comune tende a credere che l'attività di ricerca consista semplicemente in una "raccolta" di informazioni che la realtà elargisce spontaneamente. Il buon ricercatore, in quest'ottica, è colui che ha la pazienza e la perspicacia per "cogliere" i dati che la realtà gli offre, per notare i particolari, per individuare gli elementi di interesse (somiglianze, differenze, regolarità) e infine per giungere a formulare affermazioni certe o plausibili. A questa concezione il senso comune ne accosta un'altra, che ha dirette implicazioni sul campo specifico del nostro discorso, ossia quello delle scienze umane. Se fare ricerca significa semplicemente raccogliere i dati che si offrono alla nostra osservazione, ne consegue che ognuno si sente autorizzato a essere competente in merito, essendo i comportamenti umani e sociali costantemente sotto i nostri occhi e certamente più accessibili di molecole, atomi, cellule e pianeti, di cui si occupano le scienze naturali. Molte persone pensano - a torto - di essere buoni psicologi o eccellenti interpreti della realtà sociale, mentre probabilmente nessuno si arrogherebbe il titolo di biologo o di fisico senza averne una competenza specifica.

 

OLTRE IL PARADIGMA POSITIVISTA

Non solo il senso comune, ma anche la riflessione degli specialisti ha talvolta condiviso questa idea semplicistica della ricerca. Nel XIX secolo il Positivismo, l'indirizzo di pensiero inaugurato da Auguste Comte, filosofo francese e padre della sociologia, caratterizzato dall'esaltazione dello spirito scientifico e intenzionato a estendere le procedure delle scienze esatte allo studio della realtà nel suo complesso, teorizzò un'idea del metodo scientifico molto semplice: lo scienziato sottopone a osservazione i fenomeni, individua tra essi re  lazioni costanti e infine formula una legge, cioè una relazione che lega tali fenomeni in modo necessario. Comte riteneva l'approdo a questo tipo di procedura, faticosamente guadagnato dai diversi ambiti del sapere, una conquista dello spirito "positivo", capace in questo modo di affrancarsi da ingenue spiegazioni teologiche dei fenomeni o da astruse costruzioni metafisiche prive di efficacia esplicativa. A fondamento del modello positivista della ricerca stava la fiducia nel processo di induzione - il procedimento logico mediante il quale ricaviamo conclusioni di carattere universale partendo da conoscenze relative a casi particolari, attestati dall'esperienza e nella possibilità di accostarsi ai fenomeni senza disporre di idee o ipotesi preliminari che possano guidare la ricerca In questo senso esso faceva suo l'antico presupposto della filosofia empirista, teorizzato espressamente dal filosofo britannico John Locke: la mente è come un foglio bianco su cui solo l'esperienza può scrivere dei caratteri; nell'accostarsi alla realtà, essa dispone solo di meccanismi formali, con cui accoglie e rielabora i materiali che riceve. La concezione positivista suscitò ben presto opposizioni e perplessità: in particolare, l'idea di assimilare le procedure delle scienze umane a quelle delle scienze della natura fu negata fortemente dai filosofi dello storicismo tedesco, come Wilhelm Dilthey e Wilhelm Windelband, i quali sostennero, con varie argomentazioni, l'irriducibilità delle prime alle seconde. Tuttavia, è nel corso del XX secolo che essa è stata criticata più radicalmente, tanto che ne sono state riviste le premesse di fondo.

giovedì 8 aprile 2021

 

VERIFICA FINE CAPITOLO P.424

1) a) il contenuto dei romanzi d'appendice è prevalentemente storico-documentario. F

b) per i fratelli Lumiere il cinema aveva soprattutto funzione documentaristica,

c) nella società di massa i diversi ambiti dell'industria culturale tendono a evitare ogni forma di commistione. F

d) il fotoromanzo nasce destinato soprattutto a un pubblico femminile di livello sociale medio-basso. V

e) al suo sorgere la televisione italiana si ispira al modello britannico del servizio pubblico. V

 

2) a) l'avvento del disco ha modificato la fruizione sociale della musica perchè: D: ha avvicinato alla musica fasce più ampie della popolazione

b) con l'espressione information overload si intende: B: il sovraccarico di informazioni, a cui spesso è esposto l'utente di internet e la conseguente difficoltà di gestire le stesse criticamente

c) secondo Morin, un tratto essenziale della cultura di massa è: C: il suo carattere cosmopolita

 

3) a) genere di rivista prevalentemente incentrato su argomenti di attualità: ROTOCALCO

b) nella terminologia di Eco, intellettuale per nulla disposto a venire a patti con la cultura di massa e strenuo difensore di una concezione aristocratica del sapere: APOCALITTICO

c) termine inglese che indica la tipologia di programma televisivo oggi prevalentemente, caratterizzata da una mescolanza di informazione e divertimento: INFOTAINMENT

 

 4) a) QUAL E' L'ELEMENTO INNNOVATIVO INTRODOTTO NELLA CINEMATOGRAFIA DA MELIES E DA GRIFFITH?

L'utilizzo del cinema come strumento di comunicazione e di intrattenimento sociale nacque grazie all'opera di due figure pionieri: George Melies in Francia e David Griffith negli Stati Uniti. Con il primo la ripresa cinematografica cessò di essere mera documentazione dell'esistente per diventare messa in scena di situazioni fantastiche. A Griffith dobbiamo la "grammatica" del cinema che noi conosciamo e la consapevolezza del potenziale ideologico e pedagogico-sociale del nuovo strumento: il suo lungometraggio "La nascita di una nazione" è una vera celebrazione della storia degli Stati Uniti, di cui il regista giustifica gli aspetti più discutibili, come la discriminazione nei confronti delle minoranze razziali. Con Méliès e Griffith il cinema divenne una vera e propria forma di spettacolo, cioè di "ricreazione" della realtà attraverso la sua messa in scena, in quanto la tecnica di ripresa e di proiezione cinematografica offriva risorse espressive fino a quel momento sconosciute: cambiando inquadratura, ad esempio, si potevano avvicinare o allontanare artificialmente gli oggetti, creando così l'illusione di situazioni differenti e diversamente interpretabili.

b) IN CHE COSA CONSISTE L'INTERPRETAZIONE DELL'INDUSTRIA CULTURALE SOSTENUTA DA ADORNO E HORKHEIMER?

Nel 1947 Theodor Adorno e Max Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, scrivono a quattro mani il saggio intitolato Dialettica dell'Illuminismo, un testo volto a indagare le degenerazioni del razionalismo occidentale - di cui l'Illuminismo settecentesco è figura emblematica — nella moderna società industriale. Secondo gli autori la ragione novecentesca non è più, come nei secoli passati, lo strumento di dominio della natura, ma si è trasformata in un organo di controllo e di asservimento degli esseri umani, piegati alle esigenze del sistema politico ed economico di cui fanno parte. È proprio in questo contesto che i due filosofi introducono - per la prima volta nella storia del pensiero — il concetto di "industria culturale", caricando però tale espressione di un'accezione fortemente negativa: essi intendono infatti riferirsi al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, ovvero a quel fenomeno tipico della società industriale avanzata che finisce per asservire la cultura a scopi che le sono estranei: controllo sociale, cattura del consenso, promozione di stili e modelli di vita funzionali a una civiltà consumistica.

5) Le principali caratteristiche dell'industria culturale nella società di massa:

Un aspetto è la "colonizzazione" che i prodotti della cultura di massa finiscono per operare in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Non esiste uno spazio che essi non riempiono: la lettura, l'ascolto di musica, per non parlare della fruizione di radio e TV, non si collocano in precisi spazi della giornata, ma costituiscono per così dire il "sottofondo" dell'intera esperienza quotidiana. Un'altra fondamentale caratteristica dell'industria culturale del Novecento, ben messa in evidenza dallo studioso francese Edgar Morin, è il suo costituirsi come una sorta di mitologia. Come ogni forma di cultura, anche l'industria culturale ha le proprie divinità e i propri eroi, e un Olimpo costituito dallo spettacolo, ovvero da quella dimensione in cui il fruitore sperimenta in modo potente l'esperienza di evasione fantastica dalla realtà. Gli "dei", o i divi, della cultura di massa sono pertanto personaggi dello spettacolo: attori, cantanti di successo, campioni sportivi, ma anche personaggi della politica, scienziati e industriali, nella misura in cui vengono svuotati delle loro qualità essenziali (la competenza specialistica che possiedono o il ruolo istituzionale che ricoprono) e assunti alla gloria della visibilità attraverso le apparizioni televisive o le pagine dei rotocalchi che raccontano con dovizia di particolari la loro vita privata: amori, matrimoni, viaggi, vacanze e così via. Nel processo di "divinizzazione" dei protagonisti del mondo dello spettacolo entrano probabilmente in gioco due spinte complementari: una è quella che Umberto Eco definisce «riduzione all'everyman»: la gente ama la possibilità di riconoscersi nei personaggi dello spettacolo identificandosi in qualche modo con le loro qualità ed esperienze e la seconda spinta è invece costituita dal fatto che i personaggi dello spettacolo danno corpo ad aspirazioni che la gente comune non può realizzare.

 

 

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1) A chi e a che cosa rimandano le espressioni “Apocalittici” e “Integrati”?

"Apocalittici", nella terminologia di Eco, si riferisce a un intellettuale che non viene a patti con la cultura di massa e che si propone come difensore di una concezione aristocratica del sapere, mentre "integrati", sempre nella terminologia di Eco, è un intellettuale disposto ad accettare la cultura di massa ed ad utilizzarne gli strumenti.

 

2) Quando si registrarono le prime reazioni contro la società di massa?

Già a cavallo tra Ottocento e Novecento, filosofi come Friedrich Nietzsche e psicosociologi come Gustave Le Bon espressero la loro preoccupazione rispetto alla crescente rilevanza sociale delle "masse", da loro intese come moltitudini sprovviste di autonomia intellettuale e facilmente manipolabili dall'esterno, incapaci di fare valere altre prerogative se non quella della consistenza numerica. La disamina forse più spietata della società di massa, vista come decadenza inesorabile della civiltà occidentale, si trova nel saggio La ribellione delle masse del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. In quest'opera lo studioso, preoccupato di spiegare la deriva populistica della storia europea di inizio Novecento (che si esprime, a suo giudizio, sia nel proliferare dei regimi totalitari sia nella nascita del sindacalismo), cerca di individuare il "tipo umano" a essa corrispondente e lo identifica nell'uomomassa figlio della civiltà industriale, privo di valori e di memoria storica, preoccupato solo di difendere il proprio benessere materiale. Si noti che la "massa" a cui si riferisce Ortega non si identifica con le classi popolari, ma costituisce una realtà trasversale al corpo sociale, nata da quell'appiattimento generale delle condizioni e delle idee che, nelle società occidentali contemporanee, omogeneizza gli uomini al di là delle tradizionali distinzioni di nascita, ceto, censo e così via.

 

3) Chi furono i primi intellettuali a introdurre il concetto di “industria culturale” e con quale accezione?

Nel 1947 Theodor Adorno e Max Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, scrivono a quattro mani il saggio intitolato Dialettica dell'Illuminismo, un testo volto a indagare le degenerazioni del razionalismo occidentale - di cui l'Illuminismo settecentesco è figura emblematica — nella moderna società industriale. Secondo gli autori la ragione novecentesca non è più, come nei secoli passati, lo strumento di dominio della natura, ma si è trasformata in un organo di controllo e di asservimento degli esseri umani, piegati alle esigenze del sistema politico ed economico di cui fanno parte. È proprio in questo contesto che i due filosofi introducono - per la prima volta nella storia del pensiero — il concetto di "industria culturale", caricando però tale espressione di un'accezione fortemente negativa: essi intendono infatti riferirsi al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, ovvero a quel fenomeno tipico della società industriale avanzata che finisce per asservire la cultura a scopi che le sono estranei: controllo sociale, cattura del consenso, promozione di stili e modelli di vita funzionali a una civiltà consumistica.

 

LE ANALISI DELL'INDUSTRIA CULTURALE NEL SECONDO DOPOGUERRA

Nel secondo dopoguerra, ovvero con l'esplosione della società di massa, le riflessioni sulle sue caratteristiche, e in particolare sui modelli culturali in essa imperanti, si fanno più approfondite. Nel 1947 Theodor Adorno e Max Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, scrivono a quattro mani il saggio intitolato Dialettica dell'Illuminismo, un testo volto a indagare le degenerazioni del razionalismo occidentale - di cui l'Illuminismo settecentesco è figura emblematica — nella moderna società industriale. Secondo gli autori la ragione novecentesca non è più, come nei secoli passati, lo strumento di dominio della natura, ma si è trasformata in un organo di controllo e di asservimento degli esseri umani, piegati alle esigenze del sistema politico ed economico di cui fanno parte. È proprio in questo contesto che i due filosofi introducono - per la prima volta nella storia del pensiero — il concetto di "industria culturale", caricando però tale espressione di un'accezione fortemente negativa: essi intendono infatti riferirsi al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, ovvero a quel fenomeno tipico della società industriale avanzata che finisce per asservire la cultura a scopi che le sono estranei: controllo sociale, cattura del consenso, promozione di stili e modelli di vita funzionali a una civiltà consumistica. L'industria culturale — proseguono Adorno e Horkheimer - si avvale soprattutto dei canali della comunicazione di massa (giornali, tv, cinema) e mette sul mercato prodotti standardizzati, qualitativamente mediocri, costruiti in modo da impoverire nel consumatore l'immaginazione e il senso critico, lasciandogli però l'illusione di essere sovrano delle sue scelte e dei suoi gusti. Benché l'industria culturale sia un fenomeno tipico della società di massa, per Adorno e Horkheimer essa non può essere definita "cultura di massa": questo appellativo genererebbe infatti l'erronea convinzione che si tratti di qualcosa che scaturisce in modo spontaneo dalle masse stesse, in opposizione alla cultura d'élite. L'individuo della società di massa, invece, è decisamente eterodiretto (ovvero "diretto da altri", dall'aggettivo greco éteros, "altro"), soggetto passivo di una cultura che non è lui a elaborare, ma che piuttosto lo "crea" a misura dei propri imperativi e valori. Un ridimensionamento della posizione fortemente pessimistica dei Francofortesi viene da parte del filosofo e sociologo francese Edgar Morin con il saggio del 1962 L'esprit du temps  (Lo spirito del tempo), comparso nella prima traduzione italiana con il titolo L'industria culturale. Morin parte dall'assunto secondo il quale la cultura di massa va compresa, più che demonizzata: per questo motivo non deve essere analizzata con le chiavi di lettura della cultura "alta", tradizionale, ma letta "dall'interno", come parte integrante della società in cui viviamo. "Cultura", sostiene Morin, è un termine relativo; in ogni società coesistono più culture: la cultura nazionale, la cultura religiosa, la cultura umanistica, ciascuna delle quali costituisce un corpus di simboli, miti e norme che orientano la vita e il pensiero delle persone. Anche la cultura di massa rientra in questo contesto e interagisce con le altre culture: essa può dunque accogliere in sé i loro elementi, ma anche permearle dei propri contenuti fino al punto di modificarle e corroderle. Benché la cultura di massa non sia l'unica cultura del XX secolo, tuttavia secondo Morin essa ha una prerogativa peculiare: è per sua natura cosmopolita e planetaria, e in questo senso si presenta come qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a tutte le altre, ovvero come la prima cultura veramente "universale" nella storia dell'umanità.

 

 

LE PRIME REAZIONI CONTRO LA SOCIETA' DI MASSA

 

Già a cavallo tra Ottocento e Novecento, filosofi come Friedrich Nietzsche e psicosociologi come Gustave Le Bon espressero la loro preoccupazione rispetto alla crescente rilevanza sociale delle "masse", da loro intese come moltitudini sprovviste di autonomia intellettuale e facilmente manipolabili dall'esterno, incapaci di fare valere altre prerogative se non quella della consistenza numerica. Una


possibile definizione della "massa" in opposizione ad altre forme di aggregazione si trova nel saggio Massa, pubblico e pubblica opinione del sociologo statunitense Herbert Blumer. Secondo Blumer, mentre il pubblico è un gruppo di persone che si costituisce intorno a un determinato tema o problema, e che apre un dibattito per confrontare le diverse idee su come affrontarlo, la massa è un aggregato eterogeneo, privo di autocoscienza e di identità, incapace di organizzazione collettiva. Per la distanza spaziale che intercorre tra i suoi membri e la condizione di anonimato che caratterizza ognuno di essi, la massa si distingue anche dalla folla, con la quale condivide invece l'assenza di strutturazione e la condotta non razionale. Se il pubblico può formarsi un'opinione mediante il confronto delle prospettive individuali, la massa può solo accoglierla passivamente: non esiste infatti una vera e propria interazione tra i singoli soggetti, ma solo la relazione che collega ognuno di loro, isolato dagli altri, con l'informazione ricevuta grazie ai mezzi di comunicazione. La disamina forse più spietata della società di massa, vista come decadenza inesorabile della civiltà occidentale, si trova nel saggio La ribellione delle masse del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. In quest'opera lo studioso, preoccupato di spiegare la deriva populistica della storia europea di inizio Novecento (che si esprime, a suo giudizio, sia nel proliferare dei regimi totalitari sia nella nascita del sindacalismo), cerca di individuare il "tipo umano" a essa corrispondente e lo identifica nell'uomo-massa figlio della civiltà industriale, privo di valori e di memoria storica, preoccupato solo di difendere il proprio benessere materiale. Si noti che la "massa" a cui si riferisce Ortega non si identifica con le classi popolari, ma costituisce una realtà trasversale al corpo sociale, nata da quell'appiattimento generale delle condizioni e delle idee che, nelle società occidentali contemporanee, omogeneizza gli uomini al di là delle tradizionali distinzioni di nascita, ceto, censo e così via.

 

GLI INTELLETTUALI DI FRONTE ALLA CULTURA DI MASSA

 


"APOCALITTICI" O "INTEGRATI"? Quali sono state, di fronte alle dinamiche culturali della società di massa, le reazioni della "cultura alta", intendendo con questa espressione una realtà abbastanza variegata, composta sia dai soggetti depositari delle forme tradizionali del sapere e delle modalità di comunicazione che lo veicolano (letterati, filosofi, artisti, intellettuali in genere), sia dalle istituzioni sociali deputate alla trasmissione della cultura e della conoscenza (scuola, università)? Un'importante distinzione è stata introdotta da Umberto Eco nel 1964: quella tra apocalittici e integrati. Nel linguaggio di Eco, "apocalittici" sono quegli intellettuali per nulla disposti a venire a patti con la cultura di massa, strenui difensori di una concezione aristocratica del sapere. L'intellettuale apocalittico disprezza le letture poco impegnate, i rotocalchi, i programmi televisivi e radiofonici, ma soprattutto non accetta l'idea che la cultura o, in generale, la conoscenza possano essere patrimonio di molti.  Per l'apocalittico la cultura di massa è "anticultura": in questo senso il suo atteggiamento di rifiuto è rivolto, a ben guardare, alla società di massa e a ciò che essa rappresenta a livello politico e ideologico. Per converso, gli "integrati" sono convinti che la civiltà di massa consenta un allargamento della base sociale della cultura e che produca un sapere che forse per la prima volta nella storia è davvero universale, condivisibile da tutti i membri di una società. Questo costituisce, a giudizio dell'intellettuale integrato, una risposta sufficiente a tutte e critiche che si possano muovere alla cultura di massa. Ma l'integrato non si limita a difendere o a giustificare la società di massa e la sua cultura in linea teorica, ma ne utilizza anche gli strumenti, servendosi dei mass media e scrivendo libri divulgativi, oppure non disdegnando né i canali radiofonici e televisivi, né la rete per farsi conoscere. Apocalittici e integrati sono naturalmente due ideal-tipi: la posizione concreta del singolo intellettuale è spesso una commistione di questi due atteggiamenti, che talvolta tende a inclinare maggiormente verso l'uno o verso l'altro. La contrapposizione ha comunque una validità euristica, in quanto identifica due visioni diverse, in un certo senso alternative, della cultura e del suo ruolo all'interno della società.

 

 

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1) Che cos’è la cultura di massa?

Per designare il tipo di società che nasce grazie a questi mutamenti si è soliti parlare di società di massa e, corrispondentemente, di "cultura di massa": due espressioni in cui, l'aspetto puramente denotativo cede spesso volentieri il campo a interpretazioni ideologiche e a giudizi di valore.

2) Quali sono i nuovi percorsi dell’editoria nella società di massa?

Il settore dell'editoria conosce nella società di massa una crescita senza precedenti, e in una pluralità di direzioni. L'industria del libro si arricchisce di nuovi generi e proposte: l'idea di fondo è quella di confezionare prodotti ad hoc per ogni utenza e situazione, venendo incontro ai bisogni del pubblico e anzi precorrendone e orientandone le richieste. Nasce così una letteratura per bambini, per ragazzi, per signore ecc.; si pubblicano libri di cucina, di fotografia, di sport, guide turistiche, manuali di ricamo o di bricolage, saggi su temi di politica e di costume. Al potenziale acquirente che entra in una libreria viene proposta un'offerta sempre più ampia e differenziata di prodotti, simile a quella che caratterizza un negozio di capi di abbigliamento.

3) In che cosa consiste l’infotainment?

Nella neotelevisione, che nasce con il diffondersi delle emittenti private, ma pervade ben presto lo stesso servizio pubblico, si assiste a un radicale stravolgimento di questo assetto: si dilata la giornata televisiva, con un flusso continuo di programmi che coprono le 24 ore; i 3 generi della w tradizionale si riducono progressivamente a uno solo, un misto di informazione e divertimento definito da alcuni studiosi infotainment (dall'inglese information + entertainment). Inoltre, ed è questa forse la trasformazione decisiva, la neotelevisione parla praticamente solo di se stessa: da strumento di informazione su una "realtà" che si presume autonomamente esistente, essa diventa fonte di realtà.

4) Quali sono le caratteristiche della cultura nell’era del digitale?

Una riflessione specifica va dedicata agli effetti prodotti dalla rivoluzione telematica, cioè dall'irruzione delle tecnologie informatiche nel campo della comunicazione e della cultura. A questo proposito, va innanzitutto ricordata la nascita di nuovi strumenti di comunicazione, i cosiddetti "new media", tutti incentrati sull'uso del computer e delle sue applicazioni: Internet, posta elettronica ecc. Ciò ha aperto nuove strade per la circolazione delle idee e delle conoscenze, e per i processi di apprendimento/insegnamento a essa collegati. I libri in formato cartaceo, tradizionali supporti di attività come la lettura e lo studio, vengono affiancati (quando non del tutto sostituiti) dagli e-book, versioni digitali dei testi diffuse liberamente sulla rete o scaricabili a pagamento. l'attività di studio e di ricerca tradizionalmente legata ai libri e alle enciclopedie è progressivamente mutata: come fonte di nuove informazioni o di approfondimento delle proprie conoscenze, specialmente tra i giovani, viene utilizzato il web e molti siti hanno pertanto creato apposite enciclopedie digitali, periodicamente aggiornate, in cui è possibile, in modo pratico e veloce, cercare i dati di cui si ha bisogno.

 

 

LA CULTURA NELL'ERA DIGITALE


Una riflessione specifica va dedicata agli effetti prodotti dalla rivoluzione telematica, cioè dall'irruzione delle tecnologie informatiche nel campo della comunicazione e della cultura. A questo proposito, va innanzitutto ricordata la nascita di nuovi strumenti di comunicazione, i cosiddetti "new media", tutti incentrati sull'uso del computer e delle sue applicazioni: Internet, posta elettronica ecc. Ciò ha aperto nuove strade per la circolazione delle idee e delle conoscenze, e per i processi di apprendimento/insegnamento a essa collegati. I libri in formato cartaceo, tradizionali supporti di attività come la lettura e lo studio, vengono affiancati (quando non del tutto sostituiti) dagli e-book, versioni digitali dei testi diffuse liberamente sulla rete o scaricabili a pagamento. Questo fenomeno ha modificato sensibilmente la pratica della lettura: il libro non è Più l'oggetto fisico che ci appartiene in maniera esclusiva, spesso personalizzato con scritte o altre modalità di utilizzo (segnalibri, copertine, post-it ecc.), ma uno strumento più asettico e impersonale, in cui però la perdita di valore affettivo (o feticistico) viene compensata dall'acquisizione di nuove forme di fruizione: il testo elettronico permette infatti collegamenti ipertestuali, ricerca automatica di passi e citazioni e così via. Anche l'attività di studio e di ricerca tradizionalmente legata ai libri e alle enciclopedie è progressivamente mutata: come fonte di nuove informazioni o di approfondimento delle proprie conoscenze, specialmente tra i giovani, viene utilizzato il web e molti siti hanno pertanto creato apposite enciclopedie digitali, periodicamente aggiornate, in cui è possibile, in modo pratico e veloce, cercare i dati di cui si ha bisogno. E' bene ricordare che si tratta di una modalità di studio e di ricerca non scevra di rischi: specialmente per lo studente inesperto, è infatti piuttosto difficile districarsi tra la molteplicità di informazioni disponibili in rete, si parla a questo proposito di information overload, ovvero sovraccarico di informazioni, e soprattutto vagliarne il diverso grado di validità e affidabilità. In realtà si rimanda a un universo culturale "acefalo", dove tutti parlano, ma in cui non si sa chi veramente sia l'autore di ciò che si legge o si ascolta.

 


 

CHE FINE HA FATTO L'AUTORE?

 

Da quanto abbiamo detto si comprende in che senso si parli oggi di "fine dell'autore' inteso come colui che detiene il monopolio materiale e morale delle idee e delle conoscenze che circolano nell'universo culturale. A questa stessa considerazione riguardo al sistema culturale attuale siamo però condotti anche per un'altra via. L'avvento delle tecnologie digitali ha infatti reso possibile ciò che nelle epoche precedenti era precluso, ossia la riproduzione di un'opera in un numero potenzialmente infinito di copie perfette: la copia elettronica di un libro, di un brano musicale o di un video "è" quell'opera tanto quanto l'originale da cui è stata tratta. Il fenomeno apre questioni spinose sia da un punto di vista etico sia da un punto di vista legale, principalmente in rapporto al problema del diritto d'autore (o copyright). Con questa formula si indica il fatto che le legislazioni dei vari paesi riconoscono all'autore di un'opera (letteraria, musicale, pittorica) una posizione giuridica privilegiata nei confronti della sua creazione, attribuendogli la facoltà esclusiva di diffonderla e sfruttarla economicamente. È evidente che le moderne tecnologie informatiche - e in particolare i sistemi di condivisione dei file, grazie ai quali gli utenti possono scambiarsi via Internet brani musicali, film e prodotti analoghi (sistemi peer-to-peer) — mettono oggi in discussione il principio giuridico del diritto d'autore. In opposizione ai sostenitori del diritto d’autore è nato, in ambito informatico, un movimento di pensiero detto del software libero (free software). Questo movimento, che fa capo a diversi studiosi, tra cui l'ingegnere e programmatore statunitense Richard Stallman (nato nel 1953), intende garantire la libertà di copia, di distribuzione e di variazione dei programmi informatici. I teorici del software libero partono dal principio generale secondo cui la condivisione del sapere è un valore supremo, del quale la privatizzazione delle opere intellettuali a fini commerciali rappresenta la violazione più marcata. Essi ritengono che il diritto d'autore, nato per salvaguardare autori e fruitori (i quali, acquistando un prodotto coperto da diritto d’autore, hanno la garanzia di acquisirne una versione originale), abbia finito con il tempo per tutelare solo gli interessi economici delle aziende produttrici e distributrici, alle quali va la maggior parte dei guadagni delle vendite. Propongono quindi forme alternative di tutela della proprietà intellettuale, mediante licenze che accompagnino l'opera trasmettendo i diritti del suo autore a chi ne entra in possesso successivamente. Questa filosofia globale, che dall'ambito informatico si è estesa ad abbracciare virtualmente tutti i prodotti intellettuali, è spesso riassunta con la formula, intraducibile copyleft.

 

LA CULTURA DELLA TV

La fisionomia peculiare che l'industria culturale assume nel Novecento scaturisce però soprattutto dalle trasformazioni che in quel periodo investono il mondo delle comunicazioni di massa. La nascita di nuovi media (la radio e la televisione, ma soprattutto i nuovi strumenti prodotti dalla rivoluzione informatica) e la definitiva consacrazione di media già esistenti finiscono per generare quel l'identificazione tra cultura e comunicazione che è forse il tratto più tipico della società di massa, nel senso che il sistema di conoscenze, di simboli, di credenze condivise che la identificano passa attraverso i canali della comunicazione di massa. La TV è forse l'icona più rappresentativa di questo nuovo assetto. La sua nascita come strumento di comunicazione di massa risale al periodo tra le due guerre mondiali, quando sia in Europa sia negli Stati uniti vengono inaugurate le prime tecniche di trasmissione a distanza di contenuti visivi e sonori. Negli anni successivi, quando il nuovo medium si diffonderà nei principali paesi industrializzati, Gran Bretagna e Stati uniti costituiranno i due modelli di riferimento per la definizione della sua funzione sociale: servizio pubblico gestito direttamente dallo Stato (sul modello della britannica BBC)  o impresa affidata alla libera iniziativa privata e finanziata dagli introiti pubblicitari, come le molteplici emittenti via cavo presenti sul territorio statunitense.

In Italia, dove le prime trasmissioni televisive cominciano nel gennaio 1954, si afferma decisamente il primo modello, legato all'idea secondo cui la deve avere 3 scopi fondamentali: istruire, educare, divertire. Solo alla fine degli anni Settanta, quando una sentenza della Corte costituzionale decreta la fine del monopolio radiotelevisivo di Stato, nascono le prime televisioni private, create da editori, giornalisti, imprenditori. Per comprendere il ruolo progressivamente assunto dalla televisione all'interno dell'industria culturale è utile ricorrere a una distinzione introdotta dal noto studioso italiano Umberto Eco, e accolta da molti studiosi di mass media: quella tra paleotelevisione (la "vecchia" tv) e neotelevisione (la "nuova' tv).


Eco introduce questa distinzione in riferimento alla televisione italiana, ma le sue riflessioni possono riferirsi, più in generale, all'evoluzione storica del mezzo televisivo. La paleotelevisione è la TV delle origini: essa si caratterizza per mezzi tecnici ancora modesti (le immagini sono in bianco e nero) e un palinsesto limitato sia quantitativamente sia qualitativamente (le ore di trasmissione sono contenute e i programmi sono imperniati su 3 generi: cultura, informazione, divertimento). Soprattutto, la paleotelevisione è effettivamente un medium, cioè un mezzo che mette in rapporto lo spettatore con ciò che viene trasmesso: un fatto di cronaca, uno spettacolo, un dibattito politico o culturale. Nella neotelevisione — che nasce con il diffondersi delle emittenti private, ma pervade ben presto lo stesso servizio pubblico — si assiste a un radicale stravolgimento di questo assetto: si dilata la giornata televisiva, con un flusso continuo di programmi che coprono le 24 ore; i 3 generi della w tradizionale si riducono progressivamente a uno solo, un misto di informazione e divertimento definito da alcuni studiosi infotainment (dall'inglese information + entertainment). Inoltre, ed è questa forse la trasformazione decisiva, la neotelevisione parla praticamente solo di se stessa: da strumento di informazione su una "realtà" che si presume autonomamente esistente, essa diventa fonte di realtà. Nella neotelevisione, sia pubblica sia privata, la principale risorsa economica è la pubblicità nelle sue varie forme: spot, sponsorizzazione di programmi, televendite. La centralità del ruolo economico delle aziende, che acquistando spazi pubblicitari garantiscono la sopravvivenza della rete, si ripercuote sul rapporto televisione-spettatore; quest'ultimo è visto non più come un cittadino da informare, ma come un consumatore da blandire e lusingare allo scopo di conquistarne la fiducia.

 

I NUOVI PERCORSI DELL'EDITORIA

 

Il settore dell'editoria conosce nella società di massa una crescita senza precedenti, e in una pluralità di direzioni. L'industria del libro si arricchisce di nuovi generi e proposte: l'idea di fondo è quella di confezionare prodotti ad hoc per ogni utenza e situazione, venendo incontro ai bisogni del pubblico e anzi precorrendone e orientandone le richieste. Nasce così una letteratura per bambini, per ragazzi, per signore ecc.; si pubblicano libri di cucina, di fotografia, di sport, guide turistiche, manuali di ricamo o di bricolage, saggi su temi di politica e di costume. Al potenziale acquirente che entra in una libreria viene proposta un'offerta sempre più ampia e differenziata di prodotti, simile a quella che caratterizza un negozio di capi di abbigliamento. Parallelamente, vengono divulgate le grandi opere della letteratura in edizione tascabile e i nuovi volumi, di dimensioni contenute ed economicamente più accessibili, vengono talora offerti come supplementi dei periodici o dei quotidiani. Anche la lettura come pratica sociale si trasforma: spesso non è più un momento di incontro con un autore e con il suo mondo intellettuale, ma un piacevole passatempo che si può "consumare" anche in situazioni di totale relax; e analogamente si trasforma il libro, che si offre come oggetto collocabile a metà strada tra lo "scrigno", colmo di oggetti tra i quali curiosare, e il "formulario magico", che contiene una risposta pronta per ogni necessità: dal suggerimento dell'isola su cui andare in vacanza a quello delle erbe medicinali che possono curare la depressione. La pratica della lettura conosce però nel corso del XX secolo anche nuove strade, che non portano al libro, ma ad altri prodotti editoriali: giornali, riviste, fumetti, ma anche fascicoli e dépliant, tutti legati allo sviluppo delle comunicazioni di massa. Anche in questo ambito si assiste a un processo di "segmentazione" dell'utenza: si pubblicano riviste per Un'utenza femminile, per l'infanzia e per molteplici fasce specifiche di lettori, come gli appassionati di sport o di motori. La possibilità, grazie alle evoluzioni tecnologiche, di introdurre fotografie all'interno della pagina stampata favorisce inoltre la nascita di un nuovo tipo di rivista, il rotocalco, che, prevalentemente incentrato su temi di attualità, stabilisce una sorta di sinergia tra diverse forme di comunicazione di massa: le pagine delle riviste presentano infatti anche immagini di personaggi del cinema e della TV, contribuendo alla loro consacrazione nell'immaginario collettivo. Le nuove pubblicazioni favoriscono poi lo "sdoganamento" di argomenti tradizionalmente tabù: il sesso fa capolino sulle copertine dei giornali attraverso i corpi poco vestiti di bellissime dive dello spettacolo. Vera icona di questo genere è la rivista "Playboy", che esce per la prima volta nel 1953 con le foto di Marilyn Monroe, la più rappresentativa sex symbol del momento. A partire dal secondo dopoguerra, molte riviste italiane cominciano a ospitare un nuovo genere di intrattenimento: i fotoromanzi, racconti narrati attraverso sequenze di fotografie corredate da didascalie e balloons, interpretati da attori e attrici professionisti. Rivolto prevalentemente a un pubblico femminile di estrazione sociale medio-bassa, il fotoromanzo presenta i tipici contenuti del romanzo rosa: amore contrastato, incomprensione, tradimento, sofferenza e riscatto, e l'immancabile lieto fine. Il successo riscosso da questo nuovo genere induce gli editori a utilizzarlo anche per altri scopi: alcuni settimanali cattolici, ad esempio, scelgono di raccontare in forma di fotoromanzo le vite dei santi o le grandi opere della letteratura mondiale.

 

 

UNA NUOVA REALTA' STORICO SOCIALE



Il primo di questi fattori è sicuramente l'allargamento della sfera dei consumatori, conseguente al miglioramento delle condizioni economiche delle classi popolari e al diffondersi di stili di vita basati sul godimento e sulla fruizione di beni e prodotti diversi. La disponibilità di redditi più alti, unita allo spirito di emulazione nei confronti dei ceti socialmente più elevati, spinge fin dai primi decenni del Novecento anche fasce di popolazione fino ad allora estromesse dai circuiti del consumo culturale a riempire non solo la dispensa o il guardaroba, ma anche gli scaffali della libreria, acquistando libri, riviste, dischi e altri prodotti di questo genere. A ciò va aggiunta l'accresciuta scolarizzazione della società, che fornisce a un numero sempre più ampio di individui gli strumenti di base e gli stimoli intellettuali per accedere ai consumi culturali. Ma l'incremento della scolarizzazione influisce sulla trasformazione dell'industria culturale anche per altre vie, e cioè:

1.  creando lo specifico settore dell'editoria dei testi scolastici;

2. ritardando l'ingresso dei ragazzi e delle ragazze nel mondo del lavoro, contribuendo così indirettamente a creare la figura sociale del "giovane", specifico target del sistema produttivo anche per quel che riguarda il settore dei consumi culturali.

Un altro fattore importante da considerare è l'accresciuta centralità delle masse popolari come soggetto politico. La conquista del suffragio elettorale universale in quasi tutti i paesi dell'Occidente e i traguardi raggiunti dal proletariato urbano grazie alle grandi manifestazioni di piazza che lo vedono protagonista costringono i governi dei vari Stati a confrontarsi con questo nuovo soggetto politico e sociale. Per i regimi dittatoriali come per le democrazie diventa pertanto fondamentale la ricerca del consenso, ovvero la conquista dell'appoggio delle masse popolari al fine di catturarne il voto e di prevenirne l'opposizione. Giornali, libri e film diventano così importanti strumenti di propaganda politica, soprattutto presso i sistemi totalitari. Anche i nuovi media come la radio e la televisione, che nascono in questo secolo, svolgono un importante ruolo in tal senso: l'industria culturale diventa il veicolo privilegiato per la trasmissione delle idee e il suo contributo si fa fondamentale per la gestione del potere. Per designare il tipo di società che nasce grazie a questi mutamenti si è soliti parlare di società di massa e, corrispondentemente, di "cultura di massa": due espressioni in cui, l'aspetto puramente denotativo cede spesso volentieri il campo a interpretazioni ideologiche e a giudizi di valore.

 

VERIFICA DI FINE CAPITOLO P.406

 

1) Quando e perchè nasce l'industria culturale?

 

Con l'espressione industria culturale indichiamo il complesso dei soggetti e delle attività economiche che, nella società industriale avanzata, si occupano della produzione e della distribuzione di beni e servizi culturali. L'industria culturale copre dunque ambiti della vita sociale che appartengono alla nostra percezione abituale della realtà e con i quali, grazie a determinate esperienze di consumo, veniamo frequentemente in contatto: il mondo dell'editoria, le case discografiche, l'industria cinematografica, i mezzi di comunicazione di massa. Parole come "industria" e "cultura" ricorrono con una certa frequenza nei nostri discorsi, e con un significato tutto sommato piuttosto definito:

 

a) quando parliamo di 'industria" abbiamo in mente il complesso delle attività produttive che trasformano le materie prime in merci di consumo. Si tratta di un fenomeno che, a partire dal XVIII secolo circa, avviene grazie all'investimento di ingenti capitali e all'uso di macchinari che permettono la realizzazione in serie di una grande quantità di prodotti;

 

b) quanto al termine "cultura", al di là della rilettura articolata che ne ha dato l'antropologia, l'accezione principale con cui esso ricorre nel linguaggio quotidiano è quella di tipo classico-umanistico: cultura è il complesso delle esperienze intellettuali di una civiltà, depositato nelle opere letterarie, musicali, artistiche, nelle teorie scientifiche e filosofiche, e in generale nell'insieme di idee e simboli che formano l'universo del sapere.

 

 

2) A opera di chi prende avvio la stampa popolare?

 

Il 3 settembre 1833, a New York, una nuova presenza si aggira per le strade della città. Sono gli "strilloni", ragazzetti incaricati di vendere ai passanti il "New York Sun", edito da Benjamin Henry Day, Il prezzo modico (1 penny ogni copia) e lo slogan accattivante con cui il giornale si presenta, «it shines for all» ("splende per tutti) mostrano la chiara volontà dell'editore di raggiungere il pubblico più ampio possibile Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione culturale. Il modello della stampa popolare fece ben presto la sua comparsa anche oltre oceano. Nel 1836, a Parigi, il giornalista e uomo politico Émile de Girardin fondò un nuovo giornale, "La Presse", di cui riuscì a dimezzare il prezzo di abbonamento con un espediente destinato ad avere nei decenni successivi un grande successo: l'inserzione di annunci pubblicitari.

 

3) Come nasce il fumetto?

 

La stampa tard'ottocentesca è anche il veicolo di una nuova forma di comunicazione, destinata a diventare negli anni successivi un prodotto chiave dell'industria culturale: il fumetto. Grazie all'intraprendenza di un direttore cli giornali statunitense, Joseph Pulitzer, intenzionato a incrementare le vendite domenicali del quotidiano "New York World", il 5 maggio 1895 un giovane disegnatore dell'Ohio, Richard Outcault, presenta per la prima volta una serie di storielle umoristiche ambientate in un vicolo degli slums newyorkesi. Il personaggio principale dei vari racconti è The Yellow Kid, un buffo ragazzino vestito con un lungo camicione giallo, sul quale sono riportate frasi e battute relative alle vicende narrate, che solo in un secondo tempo il disegnatore affiderà ai balloons, cioè alle caratteristiche "nuvolette".

 

4) In che modo si affacciano al mercato culturale la fotografia e il cinema?

 

Già negli anni Venti dell'Ottocento, lo scienziato francese Joseph Nicéphore Niépce inizia i suoi esperimenti sulla possibilità di imprimere immagini su una lastra sfruttando solo la luce, senza ricorrere a un'incisione. Da questi studi nascerà una delle invenzioni più stupefacenti della storia umana: la fotografia. La fotografia nasce inizialmente come strumento di raffigurazione di paesaggi, soprattutto urbani, e di strutture architettoniche. Con il tempo, però, essa finisce per ritrarre anche soggetti umani. Fotografare e farsi fotografare diventano modi per realizzare altrettante modalità di vita sociale: davanti all'obiettivo sfilano intere famiglie, ma anche singoli individui di varie condizioni sociali che sperimentano per la prima volta l'onore del "ritratto" e persone che vengono colte nello svolgimento delle loro professioni. Anche in questi usi apparentemente intimi, personali, la fotografia è però un'immagine pubblica, di rappresentanza sociale: "cristallizza" le persone così come esse, o il fotografo per loro, desiderano venire percepite, ricordate, considerate. L'utilizzo del cinema come strumento di comunicazione, di intrattenimento sociale nacque Grazie all'opera di due Pionieri George Melies e David Griffith. Con il primo la ripresa cinematografica cessò di essere mera documentazione dell'esistente per diventare messa in scena di situazioni fantastiche. Dobbiamo invece a Griffith la grammatica del cinema. Con loro due il cinema divenne una vera e propria forma di spettacolo, cioè di ricreazione della realtà attraverso la messa in scena, in quanto la tecnica di ripresa e di proiezione cinematografica offriva risorse espressive fino a quel momento sconosciute: cambiando inquadratura si poteva ad esempio avvicinare e allontanare gli oggetti creando così illusioni di situazioni differenti diversamente interpretabili.

 

5) Perchè si avvertì l'esigenza di "catturare" la musica?

 

Nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, all'interno di una riflessione sul ruolo dell'arte nell'esistenza umana, dedicò particolare attenzione alla musica, che egli riteneva capace di rivelare «l'essenza intima del mondo». La posizione di Schopenhauer esprime in qualche modo la suggestione esercitata sugli esseri umani dal suono, generata soprattutto dalla sua impalpabilità: diversamente da una poesia o da un dipinto, che esistono concretamente (come pagina scritta o come tela) anche nel momento in cui non li si legge o non li si guarda, un brano musicale "esiste" veramente solo durante la sua esecuzione. Proprio questo tratto della musica generò forse il desiderio di "riprodurla" mediante strumenti che ne consentissero l'ascolto anche in assenza dei suoi esecutori diretti.